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Storia della musica: l'opera comica e l'opera seria

Tesi n.18 - L'opera comica e l'opera seria

18.1 L’opera seria

L’opera seria in Italia tra la fine del ‘600 e l’inizio del ‘700 subì profonde attenzioni da parte dei letterati: essi, tra i quali si annoverano anche gli associati della neonata Accademia della Crusca (1690), si resero conto conto dell’importante valenza artistica e delle implicazioni che comportava sul linguaggio la commistione di musica e poesia.

Questa vera e propria ingerenza si tradusse in vari interventi e prese di posizione finalizzate a plasmare dapprima la forma dell’opera musicale secondo ideali nobili di derivazione francese, ai quali seguirono invece ben più pregevoli dettami stilistici che contribuirono certamente a forgiare e a definire la struttura operistica italiana, che si avviava ormai verso la maturità.

Si ricorda in particolare l’idea di Pier Jacopo Martello, drammaturgo che codificò chiaramente i ruoli delle recitativi, che vennero indicati atti alla narrazione, dalle arie, dedicate per contro ad esprimere momenti emotivamente più pregnanti e passionali.

Successivamente, la storiografia musicale classificò ulteriormente le arie a seconda dell’emozione che esprimeva, o in base allo stile (es. di bravura, cantabile, di agilità).

In estrema sintesi, è possibile affermare che i librettisti furono coloro che governarono la definizione dello stile formale dell’opera seria italiana di questo periodo, forse più dei musicisti stessi. Peraltro, la sempre maggior aderenza a modelli francesi portò anche i contenuti a celebrare con maggiore enfasi tematiche vicine alle classi dominanti, e lontane dal pubblico che affollava la platea, formato dalle classi non aristocratiche: oltre all’ampia celebrazione dei sovrani, i temi più battuti erano quelli sulle virtù umane come l’amicizia, la fedeltà, l’eroismo.

La forma dell’aria con il da capo trovò in questo periodo la sua codificazione definitiva, grazie anche alla perizia linguistica di grandi librettisti come Metastasio (v. tesi n. 17): la struttura era quella tripartita, secondo il noto schema A-B-A.

La prima parte A era di norma costituita da due strofe di testo poetico, precedute, intervallate e concluse da una breve parte strumentale; la parte B era basata generalmente su una sola strofa, di differente testo poetico, che portava la struttura armonica musicale a modulazioni verso tonalità lontane.

Infine si ripeteva la parte A, ovvero il “da capo”, nella quale il cantate ripeteva le strofe iniziali, dando però sfoggio delle proprie abilità grazie all’improvvisazione di abbellimenti e fermate aggiuntive.

Dal punto di vista musicale, i caratteristi stilistici dell’aria prevedevano l’accompagnamento del basso continuo, alle volte raddoppiato, e da una piccola orchestra d’archi che spesso concertava con il solista: val la pena evidenziare la scrittura di Alessandro Scarlatti, che certamente spicca, per distacco, per pregevolezza e complessità in questa fase storico-musicale.

Il recitativo dell’opera italiana poteva essere “semplice”, detto anche “secco” nella storiografia musicale straniera, in senso vagamente dispregiativo, ed “accompagnato”, chiamato anche “strumentato”, o “obbligato”.

Nel primo tipo, più comune, gli strumentisti sostenevano la voce in modo minimale, ed era finalizzato alla narrazione, in particolari di parti pregnanza drammatica della storia. Esso non seguiva nessuno schema armonico, melodico o ritmico, ed era plasmato sul metro poetico: anche per questo motivo i cantanti spesso si prendevano la libertà di arricchirlo con abbellimenti improvvisati.

Il secondo prevedeva era invece una specie di arioso con accompagnamento più continuo ed utilizzato in momenti drammaturgicamente meno intensi. Scarlatti fu praticamente l’unico compositore del suo periodo ad applicare ai brani operistici tecniche contrappuntistiche che prevedevano melodie indipendenti tra gli strumentisti e la voce: tra i suoi successori il solo Handel seguì questa tendenza stilistica.

18.1 L’opera comica

L’opera comica italiana del settecento si sviluppò prevalentemente attorno a Napoli, e ricevette il suo impulso primario da Giovanni Battista Pergolesi. Lo stile delle opere buffe era semplice, scorrevole, senza uso di tecniche contrappuntistiche e di qualsiasi espediente che potesse “appesantire” l’opera: parimenti, anche gli artifizi tecnici che potessero rappresentare sfide di bravura, al cantante erano indirizzate arie che potessero facilmente raggiungere una intensa empatia emotiva con il pubblico. La scrittura strumentale delle arie è al servizio del cantante, e perde ogni vellità di concertazione e di protagonismo.

Va notato che nonostante i due generi dell’opera seria e comica coesistevano tranquillamente nel periodo dei primi del settecento, e ciò per una serie di motivi: i librettisti spesso erano gli stessi, ed anche il pubblico, con le classi aristocratiche che apprezzavano anche il genere leggero come forma di evasione dal proprio contesto quotidiano. I primi drammi comici sono da attribuirsi al seicento con Giulio Rospigliosi, ed anche agli elementi buffi contenuti nelle opere di Stradella, Melani.

Come si diceva in precedenza, fu con la scuola napoletana, sviluppatasi attorno a Pergolesi, che l’opera buffa italiana aumentò in fama e prestigio, estendendosi progressivamente al resto della penisola: in realtà il genere era variegato e spaziava da stile comico-giocoso a drammatico-giocoso, a quello della farsa.

I temi trattati erano più leggeri rispetto all’opera seria, e generalmente erano riconducibili a vicende di piccoli bisticci, raggiri, piccoli tradimenti amorosi e altre questioni di vita quotidiana; molto apprezzato era anche il confronto e la lotta tra le classi sociali, seppur in veste leggera, e non mancavano anche riferimenti di sottile ironia indirizzato al teatro musicale serio. L’azione scenica era di gran lunga più vivace e forse più importante degli aspetti esecutivi: i cantanti spesso non avevano la preparazione tecnica dei loro corrispondenti del teatro drammatico.

Le rappresentazioni avevano complessivamente un carattere più “locale”, sporadico, in generale meno ricco di allestimenti, e in definitiva erano assai più economiche delle loro controparti serie: ciò facilitò l’espansione del genere anche al resto dell’Europa.

Forse anche per questi motivi, al compositore veniva riconosciuta maggiore importanza rispetto all’opera seria, dove invece il librettista ed i cantanti monopolizzavano la scena.

La semplicità e la naturalezza di questo genere musicale fu però apprezzato anche da letterati di fama, come il francese Rousseau, che furono letteralmente catturati dall’esecuzione parigina de “La serva padrona”, forse il massimo capolavoro del genere. Va anche notato che il teatro buffo ben si prestava sia alla realizzazione di piccoli intermezzi, che erano inseriti all’interno delle opere serie, sia ad un genere indipendente.

Lo stile letterario era molto “diretto”, e non di rado faceva uso di semplificazioni grammaticali per poter garantire maggiore efficacia alla mimica scenica: i modi erano colloquiali e non di rado vi erano sgrammaticature.

Rispetto all’opera seria, va notata la sostanziale differenza del ruolo drammaturgico dell’aria: nell’opera buffa infatti la stessa garantiva una continuità narrativa ai recitativi sconosciuta nella controparte seria, dove invece era un momento di stacco, quasi contemplativo, e di riflessione sulla storia. Un filone meritevole di citazione è quello della “commedea pe mmuseca”, nato a Napoli come dramma autonomo in 2-3 atti, che tratta le stesse tematiche dell’intermezzo ma con caratteri tipici dell’ambiente napoletano, ovvero il sentimentalismo e la malinconia, e il dialetto locale, poi eliminato quando il genere fu esportato in altrove.

Nella seconda metà del secolo, fu grazie all’impulso letterario del grande librettista Carlo Goldoni che la fusione tra la musica napoletana e quella veneziana consentì all’opera buffa di valicare i confini italiani.

Egli infatti consolidò la struttura dell’opera buffa in 2-3 atti, ma soprattutto si rese il protagonista della trasformazione che portò via via il genere dell’opera buffa ad accostarsi ad una vena più sentimentale tenera ed affettuosa: l’opera significativa in tal senso è “La buona figliola”, dapprima da Romualdo Duni e poi, con molta maggior fortuna, da Niccolò Piccinni.

Da notare inoltre come anche uno dei temi teatrali più apprezzati del settecento, ovvero il “teatro nel teatro”, fu portato nell’opera buffa, come nel caso dell’Arcadia in Brenta, poi musicata da Baldasarre Galuppi.

L’evoluzione dello stile dei brani dell’opera buffa vede nella seconda metà del sec. XVIII l’importante contributo di Giovanni Paisiello, che donò uno slancio, una profondità e una complessità ai concertati d’insieme finora sconosciute, grazie all’impiego di una scrittura talvolta brillante, talvolta contrappuntistica, con fermate e con momenti di recitativo.

Tipico esempio di questo stile è visibile nella cosiddetta “stretta”, ovvero la parte finale del concertato d’insieme che vede un incalzare ritmico-dinamico di rara brillantezza: il suo esempio rimarrà seguitissimo anche dai compositori contemporanei di Rossini.

Un altro compositore della scuola napoletana che raggiunse fama europea nel filone dell’opera buffa fu Domenico Cimarosa, con il suo capolavoro del genere “Il matrimonio segreto”, inscenato a Vienna nel 1792.

18.3 La farsa

La farsa può esser considerata una variante, succinta, di estrazione veneziana, dell’opera buffa.

L’origine è evitente soprattutto parlando dei temi trattati, che sono i medesimi, ovvero situazioni buffe, travestimenti, finzioni, giochi di amanti, di piccoli raggiri, di servi infedeli; diverse sono invece le proporzioni, in quanto la scena si svolge tutto in un unico atto e ciò consentiva da un lato realizzazioni sceniche estremamente economiche, e pertanto adatte anche a teatri ed imprese non di prim’ordine, e dall’altro addirittura di realizzarne più d’una (di solito due, inframezzate da un ballo) nella stessa serata.

Tra i compositori che spiccarono nel genere della farsa si ricordano Giuseppe Nicolini, Giuseppe Farinelli, Ferdinando Paer, Pietro Generali; è però da qui che Rossini mosse i primi passi della sua carriera di compositore con realizzazioni come “Il signor Bruschino”, “La cambiale di matrimonio, “L’inganno felice”, “L’occasione fa il ladro”, affinando uno stile comico che riprenderà in opere più mature come “L’italiana in Algeri”, “Il Barbiere di Siviglia”, e “La Cenerentola”.